Cosa significa resilienza

La parola resilienza é oggi tanto diffusa, a volte é amata, a volte é odiata, e a volte la si usa anche a sproposito.

Vediamo il significato della parola come lo si trova sulla Treccani:

resilienza [re-si-lièn-za] n.f.

1. (fis.) proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi, rappresentata dal rapporto tra il lavoro necessario per rompere una barretta di un materiale e la sezione della barretta stessa;

2. capacità di resistere e di reagire di fronte a difficoltà, avversità, eventi negativi ecc.: resilienza sociale.

Dopo aver assistitio o addirittura subito un evento drammatico e come tale traumatico, come per esempio un attacco terroristico, la guerra, un’alluvione, la morte di un parente caro, per le persone inizia un calvario. Nei mesi successivi all’evento, le persone si ritrovano silenziose, sbalordite, la maggior parte rivede le stesse terrificanti immagini e si sente incapace di tornare a una vita normale. Eppure, dopo un tempo relativamente breve, un anno per esempio, più del 50% di queste persone affette da sindrome post-traumatica (PTSD) si sente meglio. Alcuni individui possiedono capacità sorprendenti per superare le difficoltà e tornare al loro stato originale, o addirittura diventare mentalmente più forti. Questo processo si puó definire “resilienza“.  

Perché ci sono persone più resilienti di altre?

In alcuni casi la resilienza é in parte innata. La concentrazione del cortisolo (l’ormone dello stress) scende più velocemente. Si stima che l’85% della popolazione abbia predisposizioni genetiche per difendersi dai traumi. Un altro fattore determinante è l’ambiente sano in cui sono cresciuti. La sicurezza emotiva durante la prima infanzia fornisce una migliore autostima e aiuta a superare meglio le difficoltà. Ma anche il sostegno della famiglia e degli amici è cruciale. Alcuni studi sullo stato della memoria dopo eventi traumatici hanno rivelato che quando i sopravvissuti venivano lasciati a loro stessi, le possibilità di reagire con resilienza erano basse, mentre quando erano ben circondati, avevano buone possibilità di farcela.

Quindi, come possiamo aiutare le vittime?  Dobbiamo rassicurarli, parlare loro con affetto, come faremmo con un bambino. Anzi, proprio come i bambini, i sopravvisuti non riescono più a gestire le loro emozioni, e talvolta non riescono nemmeno a parlare! Proteggendoli, lo stress generato dall’evento traumatico si ridurrá gradualmente.

Un primo livello di soccorso psicologico puó essere dato stabilendo un rapporto con la persona coinvolta ascoltandola attivamente.

Poi, si deve fare una valutazione dei bisogni di questa persona e stabilire delle prioritá. Per questo peró é necessario affidarsi a uno psicologo, che potrá effettivamente valutare lo stato della vittima e decidere sul follow-up per aiutare la persona a riappropriarsi della sua visione del mondo.

Hai mai assistito a un evento traumatico o hai aiutato alcune vittime di eventi traumatici? Come hai reagito?

Vuoi saperne di piú su come gestire lo stress? Guarda qui.

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Come aiutare un amico o un’amica in difficoltà

Fa male vedere una persona cara che non sta bene psicologicamente. Come aiutare un amico o un’amica in difficoltà? Nessuno ti ha insegnato come fare e tu non sai sa cosa fare. Dipende molto dalla tua sensibilità e empatia.
Un amico/a celebra con te i successi ma è anche disponibile ad ascoltare tue angustie, le tue paure, frustrazioni e problemi in generale.

Hai notato che un tuo amico o una tua amica non sembra più quello/a che conoscevi. Ti sembra triste, spento/a, parla poco, è isolato/a e bloccato/a nei suoi pensieri. Oppure è inquieto/a, nervoso/a, iperattivo/a, ansioso/a, irritabile e ha cominciato a bere molto alcol.

Ti chiedi se sarà stato a causa della pandemia. Forse, ma era così anche d’estate, quando la situazione Covid andava meglio. Continua a vedere tutto nero, non vuole uscire, non vuole vedere nessuno e nemmeno parlare con qualcuno.

Dorme male, non è motivato/a ad andare a lavorare.

La prima cosa che viene spontaneo fare, è cercare di tranquillizzarlo/a, dicendo che non si preoccupi, che tutti abbiamo dei problemi e magari cominci a raccontargli i tuoi, come se questo potesse tirarlo/a su di morale. E il risultato è che il tuo amico o la tua amica stanno sempre peggio.

In effetti, questo sminuire lo stato di malessere delle altre persone non fa altro che contribuire a farle stare peggio.

Una volta una psicologa mi disse che quando una persona è agitata, non bisogna mai dirle si stare calma, perché questo sortirebbe l’effetto opposto. Si tratta più o meno della stessa cosa. Se una persona sta male non devi sottovalutare il suo malessere.

stormy sea with splashes and waves
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È normale voler aiutare un amico/a in difficoltà, ma per aiutarlo/a devi ascoltarlo/a, in modo attivo ed empatico.

Ascoltare in questo modo non è facile, ma si può imparare, innanzitutto validando quello che sente l’amico/a, non sottovalutando la sua situazione e facendogli capire che non è solo/a.

A volte, dispensare consigli non è utile, invece potrebbe essere utile offrire un aiuto pratico, come fare la spesa per esempio. Oppure puoi proporre di uscire insieme, andare a bere qualcosa o al ristorante, perché così il tuo amico o la tua amica si possono distrarre e magari si rilassano e ti raccontano il momento difficile che stanno passando. Anche una passeggiata nella natura o una breve escursione sono attività che possono rivelarsi utili. Visitare una mostra d’arte o un museo puó davvero aiutare a tirare su il morale.

Non devi essere invadente, devi lasciare al tuo amico/a spazio e tempo, trasmettendo speranza rispetto alla possibilità che più avanti si sentirà meglio. Puoi anche dirgli/le di ricordare alcuni momenti belli del passato che potrebbero essere di conforto. Oppure, puoi dirgli/le di pensare ad altri momenti difficili e chiedersi come li ha superati.

Non devi fare pressione, né giudicare ma restare disponibile.

Ovviamente non bisogna assumersi la responsabilità della salute mentale dell’altra persona. Se non sei psicologo/a non puoi sapere se quello che sta attraversando la persona è temporaneo oppure si tratta di un vero e proprio disturbo mentale. Per questo, se vediamo che l’amico/a non migliora, dovresti cercare di convincerlo/a ad andare dal dottore a spiegare la situazione. Magari potresti anche offrirti di accompagnalo/a, perché sono gli amici che aiutano a ritrovare la luce nei momenti bui.

Quali sono le tue strategie per aiutare un’amico/a a superare una situazione difficile?

gray asphalt road surrounded by tall trees
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Ti senti leader o capo?

Ci sono persone che si comportano in modo naturalmente autoritario e persone che invece sono più propense alla collaborazione, al gioco di squadra, condividono idee e si prendono responsabilità. Possiamo considerare quest’ultime, leader naturali? Essere capo non significa necessariamente essere un leader. I leader hanno un carisma naturale, i capi a volta sono insopportabili.

Dove sta la differenza? Naturalmente nella personalitá. Non puoi essere un leader se per esempio non sei capace di ascoltare, di lavorare in squadra, di pensare al benessere altrui oltre che al tuo. I leader naturali si battono per la creazione di un ambiente di lavoro positivo, inclusivo e che ti faccia sentire parte di un’organizzazione che si prende cura di te.

Se i leader non sono manager, forse possono creare un po’ di caos e confusione ma dovrebbero essere ascoltati dal management perché hanno sicuramente dei follower che condividono la loro visione e la loro idea.

Se invece un manager non è leader? Dovrebbe cercare di ascoltare attentamente le persone con le quali lavora, per conoscere i lori bisogni, le loro aspirazioni e le loro ambizioni. Dovrebbe evitare di abusare del potere attribuito dalla posizione che occupa. Dovrebbe evitare favoritismi tra lo staff e dovrebbe evitare anche di fare micro-management. 

Tu ti senti leader o capo? Fammelo sapere!

Che noia le riunioni di lavoro!

«Le persone a cui piacciono le riunioni non dovrebbero avere alcuna responsabilità»

Thomas Sowell (economista e teorico sociale)

Alza la mano se non sei d’accordo con questa affermazione. Le riunioni di lavoro sono noiose, spesso inutili e fanno perdere un sacco di tempo.

Già nel 2003 Gramellini scriveva un articolo sull’inutilità delle riunioni, secondo lui era meglio non andarci. Come dargli torto!

Una mia collega le odia, io dipende da chi le conduce. Ci sono persone molto brave a gestire le riunioni, altre decisamente dovrebbero cambiare lavoro.

Si tratta di imparare ad ascoltare, anziché ad ascoltarsi per soddisfare il proprio ego…mentre un collega sta parlando, c’è chi consulta le proprie email, nella migliore delle ipotesi, perché altrimenti gioca sul telefonino…

Colleghi che ripetono le stesse cose, settimana dopo settimana (sì, di solito le riunioni sono almeno una volta a settimana, se si ha la fortuna di non essere manager…), altri che chiedono di verificare lo stato di avanzamento del loro progetto, che ha naturalmente dei problemi per colpa di cause esterne (elementi ambientali non ben precisati…) o interne (il collega che fa il capro espiatorio di turno, perché è stato in ferie o addirittura ammalato…), altri ancora che chiamano a gran voce l’ennesima riorganizzazione. Per poi non parlare di coloro che devono parlare di un argomento e si presentano impreparati. Talvolta c’è anche chi non sa nemmeno perché è stato invitato.

E se usassimo Slack, ho proposto alla mia ultima riunione? Tutti mi hanno guardato come se fossi un extraterrestre, per cambiare faccia quando hanno capito le potenzialità dell’applicazione. E se comprassimo anche un programma per fare recruiting automatizzando alcune funzioni che sono ripetitive e quindi inducono ad errori frequenti? Fantascienza Branchini, lavori in un’amministrazione pubblica!

 

 

Ascoltare per capire

Ti piace la musica? Cosa fai quando ascolti la tua musica preferita?

Quando ero adolescente, imparavo a memoria le parole delle mie canzoni preferita. Ancora oggi provo a farlo. Riesco a imparare facilmente le parole se ascolto attentamente alla canzone e se la ascolto diverse volte.

La stessa cosa accade con le persone. Oggi la maggior parte di noi vuole parlare e non ascoltare. Oppure ascolta non per capire, ma per rispondere. Prima ancora che l’interlocutore abbia finito di parlare, abbiamo già in mente cosa vogliamo rispondere, e così si creano tanti malintesi e disaccordi. Ti e mai capitato?  A me capita spesso al lavoro. Chiedo una cosa a un collega a questa mi risponde ancora prima che abbia finito di parlare. Generalmente la risposta non è quella giusta.

Per potere capire correttamente, occorre saper ascoltare, non solo per una questione di rispetto verso l’altro ma anche per mostrare empatia verso l’altro, cioè per fargli capire che lo capiamo e condividiamo i suoi sentimenti e le sue sensazioni.

C’è una tecnica molto efficace in coaching e counselling, si chiama ascolto attivo. È una tecnica di comunicazione che consiste nel concentrarsi il 70% sull’ascolto, il 20% nel porre domande e il restante 10% è la tua opinione (ma ricordati che potrebbe essere anche non richiesta).

Per essere sicuro di quello che la persona vuole comunicarti, devi riformulare le frasi. Per esempio, una persona ti dice:

“oggi è stata una giornata dura al lavoro, il mio capo mi ha detto che il lavoro non era fatto bene”

Tu potresti dire: “al lavoro è stato difficile oggi perché il tuo capo non ha apprezzato il tuo lavoro?”

Poni sempre la riformulazione della domanda in tono interrogativo, in modo da non farla sembrare un’affermazione. Stai cercando di capire e hai bisogno di conferme.

Il linguaggio non verbale ti aiuta molto. Non sederti a braccia incrociate, è segno di chiusura, di impazienza e perfino di sfida.

Valuta anche la distanza con la persona e ricorda che questa ha delle implicazioni culturali. Ci sono culture in cui stare seduti troppo vicino non è apprezzato e, anzi, provoca fastidio. Normalmente, un metro va bene per tutti.

Poni domande aperte, cioè alle quali la risposta non possa essere sì o no, la persona deve potersi esprimere, deve potersi spiegare.

Domande come:

  1. Chi/cosa precisamente?
  2. Quando è accaduto?
  3. Perché credi che?
  4. Come è successo? Puoi descriverlo più precisamente?

Se ti interessa imparare ad ascoltare per capire, mandami un’email.