Qualche giorno fa, ascoltando le notizie che ci aggiornanavo sulla situazione Covid-19 in Belgio , ho sentito che parlavano della sindrome della capanna. Siccome quello che stavano dicendo mi suonava familiare, ho deciso di fare un po’ di ricerche. Avendo trascorso 9 settimane in casa, senza andare al lavoro e senza vedere persone diverse dai miei familiari, devo ammettere che anch’io mi sentivo un qualcosa dentro che non mi spingeva a tornare verso una vita cosiddetta normale (poi bisognerebbe anche sapere in cosa consiste questa normalità e vedere se ci piace).

In effetti quello che io desidero è non tornare al lavoro, inteso come luogo fisico. Non mi era chiaro perché e quindi ho voluto provare come sarebbe stato tornare nel mio ufficio. Perciò sono passata in macchina lì vicino e ho scoperto con grande sollievo di non provare niente di particolare, né stress né angoscia, né paura.

Questo però non ha cambiato il mio desiderio di volere continuare a fare telelavoro, o smart working come si dice oggi.

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Di cosa si tratta?

La sindrome della capanna o del prigioniero è una sindrome che implica la voglia di continuare a rimanere nel proprio rifugio e non voler uscire da esso. Non è una vero e proprio disturbo mentale, ma è associato a una condizione particolare collegata a un lungo periodo di clausura, come per esempio una malattia, o una condizione patologica, o nel caso che abbiamo appena vissuto, alla pandemia del Coronavirus. Possiamo sperimentare ansia, insicurezza, paura del futuro e di chi non conosciamo.

Questa sindrome, descritta per la prima volta all’inizio del XX secolo, non è riconosciuta completamente a livello scientifico perché manca di letteratura e di casistica. All’epoca ci si riferiva a persone che, per esempio, lavoravano in alta montagna e trascorrevano molto tempo in casa. Si constatò che queste persone provavano difficoltà a uscire, perché sentivano che non potevano controllare lo spazio esterno. Questo può succedere anche ai detenuti quando escono di prigione (ecco perché si chiama anche sindrome del prigioniero). Ci si sente infinitamente piccoli di fronte a un mondo grande, fuori dalla nostra portata.

Che fare allora?

Abbiamo trascorso circa due mesi chiusi dentro casa, con tutte le preoccupazioni legate alla diffusione del virus, prime fra tutte, la paura di ammalarsi, la paura che uno dei nostri cari si ammalasse e la paura di perdere il lavoro.

I media hanno anche giocato un po’ con le nostre paure: mettiti la mascherina quando esci (ma le mascherine non c’erano), non toccare niente quando sei fuori se non hai guanti (anche questi introvabili), non toccarti in faccia mi raccomando (lo sai quante volte abbiamo la tentazione di toccarci la faccia in un’ora? Mediamente 60 volte, cioè una volta al minuto. Prova a farci caso). Poco importa poi se per strada vedi persone che si mettono la mascherina in modo assolutamente inappropriato che potrebbe pure essere più dannoso che utile (portare la mascherina al collo, mettersela e togliersela magari con le mani non lavate, lasciare scoperto il naso – lo so é difficile respirare con qualcosa davanti al naso e alla bocca).

E ora che, come per magia, ci dicono che possiamo uscire, ci chiediamo se il pericolo é davvero passato. La nostra mente é ancora focalizzata su tutto quello che é successo ed é normale pensare che fuori ci possa essere una situazione di pericolo e/o insicurezza (pensa solo se dovessi usare i mezzi di trasporto pubblico per esempio).

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Adesso però é tempo di pianificare l’avvenire, con tutta calma. Hai apprezzato la calma ritrovata durante questo periodo passato in casa? Io l’ho apprezzata tantissimo e vorrei che il telelavoro da casa diventasse un modello lavorativo stabile, vorrei che si potesse scegliere di restare a casa a tele-lavorare (è ovvio che non è un’opzione possibile per tutti i tipi di lavoro, ma grandi aziende come Twitter hanno già adottato questa politica aziendale e hanno deciso che andrà a lavorare solo chi vuole). Elenco solo alcuni dei i vantaggi che comporta questa scelta: la tua impronta ecologica diminuisce, la tua qualità di vita migliora perché ti trovi con del tempo “liberato” per esempio dal tempo trascorso nel tragitto casa-lavoro-casa e che puoi dedicare al tuo benessere.

Poi puoi programmare un incontro con alcuni (pochi) amici e rivedere la tua famiglia (senza ancora potersi abbracciarsi).

E’ notizia di pochi giorni fa che dal 3 giugno si potrà tornare in Italia senza dover passare 14 giorni in quarantena. Quindi, possiamo cominciare a pianificare una vacanza.

Quello che non dovresti fare é ascoltare in modo ossessivo e compulsivo (trasformando o addirittura aggiungendo alla sindrome della capanna un disturbo ossessivo-compulsivo) i continui aggiornamenti sui nuovi contagi, il numero dei morti, e le notizie che provengono dagli altri continenti. Non guardare film catastrofici, non ti aiutano ma anzi fanno aumentare la tua ansia. Poi, cerca di pensare positivo, perché come ti insegna la legge d’attrazione, se pensi negativo poi quello che ti succede sarà negativo. Sappi anche che la maggior parte delle cose brutte che pensi poi non accadono, e questa é statistica.

Soprattutto cerca di farti coraggio, di avere pazienza e di essere prudente: passo dopo passo il mondo ricomincerà a girare, più o meno bene, ma io spero meglio di prima.

Però se provi un senso d’angoscia terribile, un malessere che ti paralizza e senti come una sensazione di essere circondato/a dalle fiamme, o da mostri, o da animali pericolosi, dovresti rivolgerti a un professionista, come uno psicologo per esempio, se non vuoi che questa sindrome si trasformi in disturbo da stress post-traumatico (PTSD).

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