The Tour of the World

Some time ago I saw a nice pair of jeans in a shopping centre, which were not even expensive.

However, there was no label indicating its origin, no “made in”. Curios as I am, I decided to start a small investigation, first by asking to the shop owner, who had no idea. Then I pretended to be a member of a consumer association, I listed a whole series of regulations that he has been violating so that he gave me the address of the warehouse where he bought them.

Once home, I called that warehouse, always pretending to be an exponent of a consumer association. They started immediately to tell me the story of the jeans, without any problems, as some journalists have already made an investigation before. First of all, they were made with cotton from Benin. The cotton threads are then dyed in Spain, before being shipped to Taiwan to be woven into several separate pieces (pockets, legs, etc.).

Cottono Flower – Photo by Jan Haerer on Pixabay

The pieces are then sent to Tunisia to be sewn with Japanese polyester threads. The factory also adds buttons, zippers, rivets which are made in Japan with Australian metals.

So the jeans leave Tunisia for a warehouse in France from where they will be sold all over Europe. In short, the jeans traveled about 65,000 kilometres: once and a half the tour of the world.

The production of these jeans is definitely “globalized”: to sell jeans at the lowest possible price, manufactures look for the lowest cost of production at all levels. The manufacturer multiplies the steps to optimize its overall manufacturing cost. Dyeing is less expensive here, buttons are cheaper there, etc.

This causes several problems: the culture of cotton requires a lot of water for countries that do not have much, the working conditions of the workers are very bad, transport consumes a lot of oil and releases greenhouse gases.

At the end the jeans are very expensive for the planet, even if they are sold at an attractive final price for the consumer.

There are so many other examples like this. Danish prawns are cleaned in Morocco and then sent back to Denmark to be marketed. Scottish langoustines leave for Thailand to be decorticated by hand in a large multinational company and return to Scotland where they are cooked and then resold.

But is it worth? Wouldn’t it be better to bring production closer to places of sale, reducing energy and hydrocarbon consumption, finally doing some good to our planet?

What do you think about it?

Photo by Jason Leung on Unsplash

Il giro del mondo

Un po’ di tempo fa, in un negozio di vestiti, vedo un bel paio di jeans, che non sono neanche cari.

Però, dettaglio curioso, nessuna etichetta che ne indichi la provenienza, nessun “made in”. Decido di iniziare una piccola indagine, chiedendo per prima cosa al commerciante, che non ne ha la minima idea. Mi fingo allora membro di un’associazione di consumatori, gli elenco tutta una serie di normative che sta violando e quindi mi da l’indirizzo del magazzino dove li ha comprati.

Telefono a questo magazzino, sempre fingendomi un’esponente di un’associazione di consumatori. Non fanno una piega, ne hanno già parlato in precedenza con dei giornalisti e quindi mi raccontano la storia dei jeans. Innanzitutto, sono fatti con cotone proveniente dal Benin. I fili di cotone sono quindi tinti in Spagna, prima di essere spediti a Taiwan per essere tessuti in diversi pezzi separati (tasche, gambe, ecc.).

Cottono Flower – Foto di Jan Haerer da Pixabay

Questi pezzi sono successivamente inviati in Tunisia, per essere cuciti con dei fili in poliestere giapponese. La fabbrica aggiunge anche i bottoni, le chiusure lampo, i rivetti che sono fabbricati in Giappone con dei metalli australiani.

Quindi i jeans lasciano la Tunisia verso un deposito in Francia da dove verranno smerciati in tutta Europa. Insomma i jeans hanno percorso circa 65.000 chilometri: una volta e mezzo il giro della terra.

La produzione di questi jeans è decisamente “globalizzata”: per vendere i jeans al minor prezzo possibile, si cerca il costo più basso di produzione a tutti i livelli. Il produttore moltiplica le tappe per ottimizzare il suo costo globale di fabbricazione. La tintura è meno costosa qui, i bottoni sono meno cari là, ecc.

Questo pone diversi problemi: la cultura del cotone richiede molta acqua per dei paesi che non ne hanno molta, le condizioni di lavoro degli operai sono indegne, i trasporti consumano molto petrolio e rilasciano gas serra.

I jeans costano molto cari al pianeta, anche se sono venduti a un prezzo finale interessante per il consumatore.

Ci sono tanti altri esempi come questo. I gamberetti danesi vengono puliti in Marocco e poi rinviati in Danimarca per essere poi commercializzati. Peggio ancora i gamberoni scozzesi partono verso la Tailandia per essere decorticati alla mano in una grande multinazionale e ritornare in Scozia dove vengono cotti per poi essere rivenduti.

Ma ne vale pena? Non sarebbe meglio riportare la produzione vicino ai luoghi di vendita, riducendo il consumo di energia e di idrocarburi, facendo finalmente del bene al nostro pianeta? 

Cosa ne pensi? Scrivimi!

Photo by Jason Leung on Unsplash