Un po’ di tempo fa, in un negozio di vestiti, vedo un bel paio di jeans, che non sono neanche cari.
Però, dettaglio curioso, nessuna etichetta che ne indichi la provenienza, nessun “made in”. Decido di iniziare una piccola indagine, chiedendo per prima cosa al commerciante, che non ne ha la minima idea. Mi fingo allora membro di un’associazione di consumatori, gli elenco tutta una serie di normative che sta violando e quindi mi da l’indirizzo del magazzino dove li ha comprati.
Telefono a questo magazzino, sempre fingendomi un’esponente di un’associazione di consumatori. Non fanno una piega, ne hanno già parlato in precedenza con dei giornalisti e quindi mi raccontano la storia dei jeans. Innanzitutto, sono fatti con cotone proveniente dal Benin. I fili di cotone sono quindi tinti in Spagna, prima di essere spediti a Taiwan per essere tessuti in diversi pezzi separati (tasche, gambe, ecc.).

Questi pezzi sono successivamente inviati in Tunisia, per essere cuciti con dei fili in poliestere giapponese. La fabbrica aggiunge anche i bottoni, le chiusure lampo, i rivetti che sono fabbricati in Giappone con dei metalli australiani.
Quindi i jeans lasciano la Tunisia verso un deposito in Francia da dove verranno smerciati in tutta Europa. Insomma i jeans hanno percorso circa 65.000 chilometri: una volta e mezzo il giro della terra.
La produzione di questi jeans è decisamente “globalizzata”: per vendere i jeans al minor prezzo possibile, si cerca il costo più basso di produzione a tutti i livelli. Il produttore moltiplica le tappe per ottimizzare il suo costo globale di fabbricazione. La tintura è meno costosa qui, i bottoni sono meno cari là, ecc.
Questo pone diversi problemi: la cultura del cotone richiede molta acqua per dei paesi che non ne hanno molta, le condizioni di lavoro degli operai sono indegne, i trasporti consumano molto petrolio e rilasciano gas serra.
I jeans costano molto cari al pianeta, anche se sono venduti a un prezzo finale interessante per il consumatore.
Ci sono tanti altri esempi come questo. I gamberetti danesi vengono puliti in Marocco e poi rinviati in Danimarca per essere poi commercializzati. Peggio ancora i gamberoni scozzesi partono verso la Tailandia per essere decorticati alla mano in una grande multinazionale e ritornare in Scozia dove vengono cotti per poi essere rivenduti.
Ma ne vale pena? Non sarebbe meglio riportare la produzione vicino ai luoghi di vendita, riducendo il consumo di energia e di idrocarburi, facendo finalmente del bene al nostro pianeta?
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